Paul Hansen - Gaza Burial (World Press Photo of the year) |
Rari sono i momenti in cui i temi della Fotografia, quella con la F maiuscola, assurgono al dibattito pubblico e occupano un posto di rilievo nell'informazione.
Uno di questi momenti sembra essere l'annuale premiazione del Word Presso Photo, che ormai sembra far più notizia non per i temi che tratta quanto per il modo. In questi giorni infatti si fa un gran parlare della foto vincitrice di questa edizione, ovvero lo scatto di Paul Hansen che vedete in testa a questo articolo. Paradossalmente il discorso verte non sulla drammaticità della situazione rappresentata, ma sul fotoritocco apportato all'immagine.
"È giusto", si chiedono in molti, "ritoccare così pesantemente un'immagine come questa per renderla più appetibile e quasi patinata, in barba all'argomento trattato? È giusto vincere un premio per uno scatto del genere, così crudo, sfruttando il dolore della gente?"
Già altri ne hanno discusso, e di certo la risposta definitiva non verrà da questo post né dal sottoscritto. Quel che si può fare è cercare di fare un breve focus, esulando dai facili sensazionalismi e dai discorsi più consoni ad una sala d'attesa.
Ne ha scritto, si diceva, Renata Ferri (qui), già per due volte nella giuria finale del Word Press. Ne ha scritto Michele Smargiassi su Repubblica (qui). A mio avviso già questi due articoli affrontano bene l'argomento, pur non risolvendolo, perché tanto si potrebbe parlare a proposito e da tanto tempo, come si sa, se ne parla.
La postproduzione esiste da sempre, da ben prima della nascita di Photoshop, e da sempre è utilizzata. Non solo, ma molte delle fotografie di guerra divenute famosissime sono anche frutto di una messinscena, o presunta tale. Basterebbe citare il caso del Miliziano morente di Robert Capa come emblema di questo dibattito. Eppure nessuno, oggi, negherebbe il valore iconico e sociale di queste immagini. Nella foto di Hansen, tra l'altro, il fotoritocco si limita, come nella gran parte delle foto di reportage, ad un aggiustamento dei toni, della cromia e delle luci, senza nulla modificare dall'originale ma semplicemente esaltando ciò che già c'è.
Lì dove più che il fotoritocco c'è stato il "taroccamento" della foto, l'autore è stato velocemente scoperto e la sua carriera troncata. Oggi, a differenza di prima, è molto più facile trovare la foto tarocca, e la gogna mediatica è immediata e ha vasta eco.
Si potrebbe discutere come questo tipo di color correction, ormai diffusissimo, abbia in realtà creato un effetto di appiattimento tra gli autori, coadiuvato dall'uso quasi onnipresente del grandangolo, a scapito di un'estetica e di un linguaggio personale. La postproduzione è talmente simile che spesso si fa fatica a distinguere un autore da un altro. Inoltre la ridondanza dei temi trattati, dei luoghi ripresi e delle situazioni di certo non aiutano a distinguere il tratto personale dell'autore. E creano, nell'osservatore, quello che qualcuno ha definito anestesia al dolore.
C'è anche chi, chiedendosi se sia giusto incentrare il fotogiornalismo sulla tragedia, sulla morte, sulla sofferenza, propone di abolire il Word Press Photo (qui). È un'opinione, sicuramente una valida riflessione, ma abolire il premio non porrebbe sicuramente fine alla più o meno presunta mercificazione del dolore né tantomeno fermerebbe i fotografi.
Come ha già notato la Ferri:
Colonizzatori di tragedie, un esercito d’occupazione del dolore, sono i fotogiornalisti improvvisati, ingenui, spesso sprovveduti che cercano nella foto sensazionale il riscatto a una carriera modesta o incerta. Non vale per tutti ovviamente e non è rivolto a nessuno in particolare ma certo, da quando questo mondo globale del dolore e delle guerre è a portata di volo low cost, è diventato un teatro accessibile per qualsiasi desiderio di veloce fama, a scapito di una ricerca consapevole, originale e rispettosa.
Ed è un po' paradossale, al contempo, che proprio il vasto pubblico critichi quel certo utilizzo della postproduzione quando quello stesso pubblico è subissato per ogni dove da immagini pesantemente manipolate e spesso, quando prodotte da chi con la Fotografia (sempre quella con la F maiuscola) ha un rapporto pressappoco nullo, giocoso, hobbystico, di scarsissimo valore.
L'abbassamento del gusto sta diventando il vero vulnus della questione fotografica, perché inizia anche a coinvolgere chi le foto le pubblica e chi ci lavora. Ma questo è un'altra questione. Nonostante tutto, il vasto pubblico avverte che davanti al dolore, alla tragedia, alla morte, si debba avere un confronto rispettoso e delicato come con il sacro, e forse per questo non perdona una manipolazione estetica, anche se funzionale. Il dolore non ha bisogno di abbellimenti.
Ma la Fotografia è anche arte, sempre, e l'arte è interpretazione. Se così non fosse, riesumate Picasso e chiedetegli di rifare Guernica, perché non è oggettivo e realistico, ma troppo originale e dà un'interpretazione troppo personale.
Qui poi ci sarebbe da discutere e spendere tante parole rievocando quanto detto sulla fotografia da Barthes, dalla Sontag e da tanti altri. Ma sono discorsi più che noti e già citati abbondantemente.
Voglio invece fare un'operazione diversa, portare il discorso a livelli più comprensibili e semplici, come si fa in una discussione tra amici. E proprio da lì che prendo spunto. Da un post che ho scritto stamattina su Facebook, linkando l'articolo di Smargiassi di cui sopra. Accompagnavo l'articolo con una breve riflessione, che riassume quanto detto in questo articolo: qual'è il limite dell'estetica di fronte all'etica?
Hanno risposto un po' di amici, fotografi per la maggior parte. Si è discusso, si è scherzato anche. Ma di tutti gli interventi, uno in particolare voglio riportare qui. È un parere che ho espressamente richiesto, perché so che è il punto di vista che finora è mancato. È un commento di Laura Silvia Battaglia (qui il suo sito), cara amica e giornalista che da anni fa su e giù tra l'Italia e i paesi mediorientali, una di quelle che la guerra l'ha vista dal vivo e l'ha raccontata.
Laura è stata generosa e invece di un breve commento, mi ha scritto un piccolo articolo, nel linguaggio amichevole e diretto dei social network (e per questo ancora più efficace) che riporto letteralmente:
L'estetica del ritocco sta in parte condizionando il lavoro dei fotografi, in parte modificando i gusti del pubblico. Ma il dato di fatto è che i photoeditor (che sono gli unici a cui spettano una serie di responsablità e azioni decisionali) chiedono ai fotoreporter esattamente questo tipo di prodotto più leccato. Se non photoshoppi non vendi. La domanda che dobbiamo farci è perchè. Non è solo una questione di tecnica ma una questione culturale. Ciò che Hansen ha fatto su un'immagine, gli autori del documentario "Armadillo" (qui il trailer, N.d.A), l'hanno fatto su tutto il loro lavoro, che riguardava la partecipazione dei soldati danesi della Nato nella guerra in Afghanistan. Questo docu è un trionfo della color, cioè dell'estetica del photoshoppaggio sulla realtà della guerra. Nel video tutto è settato sui colori sabbia e verde, eliminando quasi completamente il magenta. Anche qui: perché? E' una scelta estetica. Qual è l'effetto di questa scelta estetica? L'Afghanistan che lo spettatore vede semplicemente non è l'Afghanistan (lo dice una che c'è stata due volte): la luce appare morbida, appena accennata; non c'è la durezza e la crudezza del paesaggio. E, soprattutto, anche quando viene mostrato un soldato ferito, non c'è rosso, non c'è sangue. Ma qual è dunque il messaggio? Il messaggio è questo: il soldato danese è perso in una landa desolata, fangosa e fumosa. Tutto è poco chiaro, anche la morte. Ma chi la vede dallo schermo non la sente, quindi si illude di rimanerne lontano, distante. La guerra dunque, è un incubo dal quale forse ne usciremo vivi ma è un incubo meno grave del previsto. Adesso veniamo ad Hansen. Mi sembra evidente che la ricerca estetica di questo fotografo sia stata fondamentale. Ma, in questo caso, mi sembra che potenzi proprio una scelta etica: vale a dire mettere questo scatto a servizio della retorica della morte tipicamente Mediorentale, dove il martire va mostrato in una sorta di nuova e islamica pietà, il tutto in funzione politicamente antiisraeliana, oppure umanamente e semplicemente contro la follia della violenza e della guerra. Se posso essere sincera, avendo molti amici fotografi palestinesi che hanno fotografato i fratellini durante lo stesso percorso, da varie angolazioni e poi alla morgue, e pensando a tutte le foto di martiri che intasano i canali youtube che i ribelli siriani e prima libici mi mandano ogni giorno, dico che ben venga il lavoro di Hansen che ha messo una pratica occidentale abusatissima come il ritocco fotografico a servizio delle news in aree di crisi. Paradossalmente il messaggio che rilascia Hansen è l'opposto di quello degli autori di Armadillo: questa color non mitiga ma risalta la morte, la rende molto più tragica, meno ordinaria. E soprattutto la eternizza, la ferma per sempre a simbolo di una guerra che non ha mai fine. Certo, lo fa con gli stessi mezzi degli autori di Armadillo ma l'obiettivo è esattamente il contrario di quello che hanno perseguito costoro. Infatti, perché nessuna polemica ha investito la "ricerca estetica" degli autori di Armadillo nel mostrarci la guerra in Afghanistan come una realtà fumosa, anzi sono stati lodati per questo? Semplice, perché quando la morte ci riguarda in prima persona e non è quella degli altri, ben venga illuderci che è meno cruda. E la color vale quanto un analgesico. Stavolta invece, nel caso di Hanses intendo, la color vale di più di un macchia di sangue palestinese perché di quelle macchie ne abbiamo viste tante, troppe, e non ci dicono più nulla.
Mi sembra che non ci sia molto altro da aggiungere, se non questo breve commento di un'altra cara amica, Alessandra Quadri, fotografa reportagista (qui i suoi lavori):
La postproduzione è sempre esistita ed il problema non è etico se non manipola la realtà. Sicuramente non è il primo caso di uso forzato di photoshop in concorsi di fotogiornalismo, ne', di sicuro, è il caso più esasperato. Se la foto non è stata manipolata (esistono modi per manipolare il raw) allora l'uso di photoshop della foto è legittimo: il limite dipende dalla sensibilità della giuria. Ma si tratta di sensibilità, quindi opinabile fin che si vuole, ma sacrosanta. Più interessante è per me è capire i meccanismi della "questione culturale", dell'estetica della post produzione, come diceva Laura qui sopra. Il perchè il mercato continui a richiedere un certi tipi di prodotti e perchè stia condizionando il lavoro dei fotografi, appiattendo lo stile e rendendo tutte le immagini di reportage sostanzialmente simili. Quasi nessuna foto rimane impressa nella memoria. E questo è un vero peccato.
Concludo con una riflessione brevissima e semplice. Questo perché viene da una persona che è abituata per lavoro a riassumere concetti molto complessi e vasti in poche semplici parole: non è facile spiegare certe cose ai ragazzi di seconda elementare.
È molto probabile che l'immagine originale, non manipolata, avrebbe avuto lo stesso effetto shockante, avrebbe reso il dolore nello stesso modo. Ma così lavorata, rende meglio l'atmosfera che il fotografo ha percepito in quel momento.
Perché la pellicola, o il sensore, sono pur sempre mezzi meccanici, e valgono ben poco senza l'interpolazione dell'animo umano.
Giuseppe Biancofiore
Essere o non essere... questo è il problema.
RispondiEliminaCosa si vuole rappresentare, la drammaticità della guerra? Lo ha fatto Capa riuscendoci, lo hanno fatto altri e altri ancora lo faranno. Al di la della tecnica. Allora una pittura, con le varie tecniche, forse non può rappresentare in tutta la sua drammaticità le assurdità della guerra? e ciò non è arte.
Mi sono chiesto per molti anni: cosa è la fotografia; e devo essere sincero, credo di essermi avvicinato ad un palmo dal capire cosa fosse realmente la fotografia. Poi ho cercato conferme presso pseudo associazioni di papabili fotografie non, e allora non ho capito più nulla, tranne che la fotografia prima di ogni cosa la devi sentire dentro e cercare nel proprio Io. Grandi fotografi sono stati e ci saranno ancora a rappresentare con la loro bravura, tecnica e con le loro immagini i valori assoluti e incontrastabili della vera fotografia. Una persona poco tempo fa mi ha detto: forse si è fotografato e rappresentato tutto, quindi non c'è più nulla di nuovo. Non è assolutamente così. La fotografia va di pari passo con l'espansione del nostro cervello, inteso come bisogno di conoscenza di sapere sempre più. Del resto, abbiamo nella quotidianità il bisogno di confrontarci con le immagini qualsiasi esse siano, nello stesso tempo però dobbiamo essere attraverso la nostra esperienza coscienti di saper distinguere la verità attraverso la ragione.
Esiste un settore dove non ci sia il bisogno delle immagini?
Ah quale più grande fascino di rivedere una tua fotografia, e rivivere quella grande emozione del momento in cui è stata fatta, osservando qualsiasi particolare, e sentendoci persino gli odori, il calore il respiro.
Si il respiro perché anche le foto hanno un loro battito cardiaco che ti trasmettono quando li guardi.
Io credo che il problema sia che molti reporter non hanno idea di cosa abbiano fatto i reporter più grandi della storia. Io al WPP ormai vedo dei "turisti del dramma": gente lì per caso, che non approfondisce, non conosce e poi, come tu noti, impossibile riconoscere per uno stile, una qualunque originalità...
RispondiEliminaPrima si vedevano al WPP delle ottime foto, oggi delle foto.
Anna
Mi butto nella battaglia (sul blog Afip no ma in altri siti si) che si è scatenata a proposito di …manipolazioni….o semplici fotoritocchi…o alterazioni della realtà… o addirittura etica ,.morale, sfruttamento del dolore…ecc. in merito al Word Press Photo da poco assegnato.
RispondiEliminaMa quando mai la realtà si è presentata al nostro obbiettivo e noi l’abbiamo accettata?
Come minimo dopo averla cercata e trovata - che fosse in una mela, in una guerra, in un personaggio, in un paesaggio, in un matrimonio o nella nostra fantasia – quando mai un fotografo non ha cercato il modo, il momento la posizione o la luce migliore per rappresentarla?
Non è che la realtà sia brutta o perlomeno “poco fotogenica”?
Infatti dal primordiale fotoritocco, con matite o pennellini, con il raschietto, sul positivo o sul negativo, con l’aerografo, con la mattoleina (chi se la ricorda più) e, soprattutto, nel segreto della camera oscura la fotografia si è sempre avvalsa di tecniche, artifici ed arti per rappresentare o, se volete, interpretare la realtà.
Ora c’è Photoshop. Che cosa cambia ? (cambia cambia, anzi è già cambiato tutto).
rispetto totale! per Alfredo sono pienamente d'accordo con lui!
RispondiEliminaSono lieto di essere arrivato alla stessa conclusione (come scrivevo sul blog fotocrazia)e cioè che la foto in questione anche senza un fotoritocco così marcato avrebbe vinto comunque il premio. Eppure continuo ad essere convinto che esista una misura che faccia restare protagonista la notizia e la renda unica e reale. Photoshop (o altri) è un mezzo ma c'è anche un modo di usarlo
RispondiEliminaed un perchè. Il perchè può consentire grandi manipoazioni, ma nel fotogiornaismo, di cui si tratta nel wwp, il perchè dovrebbe essere la notizia. Dunque, nel caso di Hansen, rimane il modo. Nulla contro l'uso del fotoritocco, ma in modo tale che non prenda il sopravvento sulla notizia, e che non renda qualunque tragedia simile ad un altra. Se il mio occhio vedendo il funerale dei piccoli palestinesi è distratto dalla notizia perchè l'effetto diventa protagonista, se il fotoritocco diventa soggetto rispetto all'accaduto, il fotoritocco (rimanendo nel campo del fotogiornalismo) ha superato i suoi compiti... la Guernica, è arte. Ed è arte sublime ed eccelsa... Si tratta di conoscere bene i contesti. L'arte non ha e non deve avere limiti, ma temo l'omologazione, specie nell'informazione. Personalmente ritengo la foto di Hansen bella, ma forse più bella sarebbe con le ombre sui volti ed il vicolo più scuro. De gustibus non...
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RispondiEliminamolta demagogia anche nei concorsi del settore, che premiano talvolta in modo discutibile foto discutibili con motivazioni di facciata, forse per premiare i soliti noti, scegliendo l'omologazione senza rischi e senza polemiche.
RispondiEliminahttp://www.artonweb.it/fotografia/articolo35.html